Codice dell'amministrazione digitale incostituzionale?
Ecco perché il nuovo codice dell'amministrazione digitale rischia la disapplicazione o una pronuncia di incostituzionalità
di Gianluigi Lazari (Avvocato in Brindisi, Docente al Corso di Alta Formazione in Commercio Elettronico Internazionale, www.scint.it)
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Leggendo lo schema di decreto legislativo del nuovo codice dell’amministrazione digitale, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri dell’11.11.2004 e i suoi primi commenti sul web, si ha la sensazione che sia in atto l’ennesima rivoluzione in materia di valenza formale e probatoria del documento informatico.
Sul punto, la modifica più rilevante è data dal 2º comma dell’art. 17 del nuovo codice: “Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica qualificata o con firma digitale soddisfa il requisito legale della forma scritta se formato nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 72 che garantiscano l’identificabilità dell’autore e l’integrità del documento”. Tale disposizione dovrebbe andare a sostituire il 2º comma dell’art. 10 del d.P.R. 445/2000, così come modificato dal d.lgs 10/2002, che, invece, sanciva che “il documento informatico, sottoscritto con firma elettronica, soddisfa il requisito legale della forma scritta”.
Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica cd. “leggera” cesserebbe di soddisfare il requisito della forma scritta; la modifica cambierebbe così i presupposti giuridici su cui si sono fondati i recenti decreti ingiuntivi() basati prevalentemente o esclusivamente sulla produzione di e-mail.
Ma allora quale sarebbe la sua valenza formale? Il nuovo codice si occupa esplicitamente solo della sua efficacia probatoria, confermando l’attuale normativa: “Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza”. Della sua valenza formale, si perde ogni traccia; sembra, quindi, che ritorni nel limbo giuridico in cui era stato relegato prima dell’approvazione del d.lgs. 10/2002().
Non solo: il 4º comma dell’art. 10 d.P.R. 445/2000, attualmente in vigore, recita: “Al documento informatico, sottoscritto con firma elettronica, in ogni caso non può essere negata rilevanza giuridica né ammissibilità come mezzo di prova unicamente a causa del fatto che è sottoscritto in forma elettronica ovvero in quanto la firma non è basata su di un certificato qualificato oppure non è basata su di un certificato qualificato rilasciato da un certificatore accreditato o, infine, perché la firma non è stata apposta avvalendosi di un dispositivo per la creazione di una firma sicura”. Ma anche tale disposizione, che pure rappresenta il fulcro dell’attuazione della direttiva comunitaria sulle firme elettroniche(), “volta ad agevolare l'uso delle firme elettroniche e a contribuire al loro riconoscimento giuridico”(), sembra destinata a svanire nel nulla.
Tale impostazione, se confermata, costituirebbe una grave penalizzazione delle firme elettroniche semplici, in contrasto con lo spirito e la lettera della direttiva CE, che, nata come reazione alle legislazioni statali italiane e tedesche che si incentravano esclusivamente sulle firme digitali, adotta un approccio “tecnicamente neutrale”, introducendo un riconoscimento legale a livello europeo per tutti i tipi di firme elettroniche(). La direttiva si propone di assicurare una vasta gamma di firme elettroniche, tutte ammissibili in giudizio, e differenziate sotto il profilo probatorio a seconda della loro minore o maggiore sicurezza o affidabilità().
Come è noto, il legislatore nazionale è tenuto ad osservare queste prescrizioni in virtù del fondamentale e consolidato principio della primazia del diritto comunitario e ad adottare particolare cautela nel momento in cui va a modificare una normativa di recepimento della normativa comunitaria.
Le conseguenze della eventuale incompatibilità tra la normativa nazionale e quella comunitaria sarebbero perentorie: 1) la commissione europea potrebbe avviare un procedimento di infrazione nei confronti dello stato italiano; 2) il giudice italiano, sarebbe tenuto a disapplicare la normativa italiana per applicare quella comunitaria; 3) lo stato italiano potrebbe essere chiamato in giudizio per risarcire eventuali danni, procurati dalla mancata o non corretta attuazione del diritto comunitario.
Ma vi è di più: la stessa legge delega n. 229 del 29 luglio 2003, che ispira il nuovo codice dell’amministrazione digitale, dettando i principi e criteri direttivi che il governo deve rispettare nell’adozione dei decreti legislativi delegati, invita a graduare la rilevanza giuridica e l'efficacia probatoria dei diversi tipi di firma elettronica in relazione al tipo di utilizzo e al grado di sicurezza della firma.
E’ per questi motivi che non può essere condivisa la posizione di Cammarata, che, in un suo recente articolo, dopo aver riportato il 2º comma del art. 17 del nuovo codice, così chiosa: “Si fa quindi piazza pulita delle regole, confuse e non coerenti con l'ordinamento, introdotte con il recepimento della direttiva europea e si ritorna alle (ovvie) disposizioni del d.P.R. 513/97”().
A parere dello scrivente, invece, una normativa che intendesse negare rilevanza giuridica o ammissibilità come mezzo di prova alle firme elettroniche “leggere”, di fatto destinandole all’oblio nel nostro ordinamento e tornando a quanto disposto dal d.P.R. 513/97, apparirebbe da un lato a rischio di una pronuncia di illegittimità costituzionale per eccesso di delega, dall’altro inapplicabile per contrasto con una direttiva comunitaria attualmente in vigore.