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PREVENZIONE E RESPONSABILITA' PER L'ABUSIVA DUPLICAZIONE DEL SOFTWARE ALL'INTERNO DELL'AZIENDA

Ad oggi pressoché tutte le aziende utilizzano software per lo svolgimento delle più svariate operazioni.
Negli ultimi anni contemporaneamente alla diffusione di software ad uso professionale, è andata moltiplicandosi anche la duplicazione abusiva del software all'interno delle aziende.
A seguito della recente legge 248/00, chiunque, per trarne profitto, duplica abusivamente programmi per elaboratore o, per gli stessi fini li distribuisce, rischia la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa da 5 a trenta milioni (salvo si tratti di freeware, ovvero programmi gratuiti, che quindi possono circolare liberamente).
Sino a tale riforma tra gli elementi costitutivi della fattispecie normativa in esame, figurava il concetto di lucro, con il quale il legislatore indicava qualsiasi arricchimento patrimoniale conseguito con la duplicazione del software da parte del "pirata"; ma la suddetta legge ha apportato un sostanziale cambiamento nel contenuto della norma, sostituendo l'inciso "a fine di lucro" con quello "per trarne profitto"; con la semplice collocazione della parola profitto si è inteso ampliare le ipotesi di identificazione del reato non più solo intendendo penalmente rilevante la duplicazione del software volta ad accrescere il patrimonio, ma anche la duplicazione volta al semplice risparmio economico, o ad un generale beneficio.
In una ipotesi ben specifica, però, la normativa prevede la possibilità di fare una copia del software originale, non gravando ciò come illecito ex art. 171 bis LDA.
Si tratta della cosiddetta copia di sicurezza, ovvero quella copia che necessita di essere utilizzata nel caso in cui il programma originale, per qualche motivo, divenga inutilizzabile (art. 64ter, secondo comma, legge sul diritto d'autore).
La duplicazione del programma in qualità di copia di sicurezza è addirittura protetta dall' ordinamento, in quanto proprio ai sensi del suddetto articolo, è espressamente disposto che non può essere impedito, al legittimo utilizzatore, di effettuare una copia di riserva del programma.
Il produttore potrà evitare che l'utilizzatore crei copie di riserva del programma solo fornendo a quest'ultimo supporti di riserva. Logicamente anche il supporto di riserva seguirà il regime della copia di sicurezza, non potendo in alcun modo essere nuovamente riprodotto, e potendo essere utilizzato esclusivamente in alternativa al programma originale.
Premesso ciò, vediamo quali casi di abusiva riproduzione di software possono realizzarsi all'interno di un'azienda, ed eventualmente come prevenire spiacevoli episodi di duplicazione abusiva.
Innanzi tutto è necessario che l'imprenditore verifichi sempre l'esistenza dei documenti che possano dimostrare la legittimità dell'utilizzo del software acquistato.
Infatti, la prova del legittimo possesso di un programma può essere fornita con qualsiasi documento idoneo a dimostrare il legittimo trasferimento del programma dal produttore o dal distributore all'utente finale (quindi anche le fatture sono documenti idonei a fornire la prova)
La necessità di mantenere un documento che comprovi l'avvenuto acquisto del software, deriva dall'indicazione normativa dell'art. 10 della legge sul diritto d'autore, il quale stabilisce espressamente che il trasferimento dei diritti di utilizzazione sul software debba essere provato per iscritto.
La sola buona fede è di per sé insufficiente a provare che si tratti di software originale.
Non è raro, inoltre, imbattersi in incauti acquisti di software abusivamente duplicato. Soprattutto la prospettiva di un basso costo, spinge a rivolgersi senza averne conoscenza, a soggetti non autorizzati. È bene sapere che il rischio cui si può andare incontro è addirittura una incriminazione per il reato di ricettazione (art. 648 c.p.). e proprio per evitare un rischio del genere, è necessario mantenere la prova scritta dell'acquisto, in quanto mediante la prova cartacea si dimostrerà più facilmente come si sia trattato di incauto acquisto (art. 712 del c.p.) e non del ben più grave reato di ricettazione.
Altra problematica che può sorgere all'interno di un'azienda, riguarda la ripartizione delle responsabilità per abusiva duplicazione tra il datore di lavoro (o un superiore responsabile di un determinato reparto) ed i propri dipendenti (o subordinati).
Dal punto di vista del datore di lavoro, il primo consiglio pratico onde evitare spiacevoli inconvenienti, è mappare le risorse informatiche dell'azienda, ovvero appuntarsi in maniera schematica tutti i programmi installati su ogni singolo computer, per poter verificare nel tempo quali programmi sono in esubero rispetto a quelli forniti in partenza al proprio dipendente.
Infatti il superiore o il datore di lavoro, non sono responsabili del software abusivamente duplicato all'interno dell'azienda, solo se il dipendente ha violato disposizioni ed ordini esecutivi impartiti dalla direzione aziendale (artt. 171 e 171 bis legge sul diritto d'autore), duplicando all'insaputa della stessa.
E', però, ipotizzabile un coinvolgimento penale dei suddetti, a titolo di concorso nel reato commesso da un proprio dipendente, nella misura in cui le circostanze concrete dimostrino che il comportamento criminoso del dipendente sia stato agevolato dalla mancata adozione, da parte del responsabile, di idonee misure di prevenzione e controllo.
Potrebbe infatti essere contestato al datore di lavoro, l'art. 40 del nostro codice penale, articolo che prevede i cosiddetti 'reati omissivi impropri'. Questa ipotesi di reato ricorre qualora un reato informatico di abusiva duplicazione venga commesso da un dipendente dell'azienda, qualora sia dimostrabile una responsabilità del datore di lavoro o del diretto superiore per non aver messo in essere tutte quelle cautele che riducano al minimo i rischi e le conseguenti responsabilità dell'azienda.
In particolare, occorre che i comportamenti omissivi non agevolino, in qualche modo,
il comportamento del dipendente.
Onde evitare ciò spesso viene costituito un accordo con i dipendenti; tale accordo contiene delle indicazioni e dei precetti che devono essere osservati dal dipendente, la cui violazione può comportare sia un semplice richiamo disciplinare sia un licenziamento.
Si tratta quindi di un processo di responsabilizzazione degli utilizzatori finali (i propri dipendenti), attraverso la diffusione dell'informazione circa i rischi penali connessi all'uso indebito del mezzo informatico o alla riproduzione non autorizzata di software. Si potrebbe appellare come un codice di condotta informatica, i cui principi, vista la diffusione ormai capillare del mezzo informatico all'interno dell'azienda, potrebbero addirittura essere inseriti a livello di contratto di lavoro.
Questo accordo diffuso tra i dipendenti, dimostrando ed informando sulla politica aziendale adottata in merito all'utilizzo del software, spesso può prevenire illeciti che altrimenti - ingenuamente o meno - potrebbero essere posti in essere dai dipendenti.
Altro tipo di violazione cui può involontariamente incorrere l'utente professionale, può riguardare le cosiddette licenze di rete (floating licence).
Con una licenza di rete può essere installato su un determinato numero di PC un certo programma, in accordo con il titolare della licenza. In pratica, grazie alla licenza di rete più utenti potranno utilizzare in rete il medesimo programma, evitando inutili spese per più programmi.
Il numero massimo di utenti della rete che possono utilizzare il programma è generalmente specificato nel "range" della licenza, potendo comunque la licenza essere estesa nel momento in cui l'organizzazione aziendale comporti ampliamenti.
Installare più programmi ad utenti numericamente superiori rispetto a quelli determinati con la licenza di rete, integra il reato di duplicazione.
Appare quindi ampio il raggio di illiceità cui si può andare incontro intraprendendo la riproduzione di un programma.
Eppure, non si comprende perché la politica normativa adottata dal legislatore debba condannare con il penale ciò che semplicemente rappresenta eventualmente un danno economico, e cui potrebbe conseguire semmai solo un risarcimento del danno, e non addirittura una condanna sino a tre anni di carcere!

(riproduzione riservata)

Dott.ssa Valentina Frediani

 

 

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