Internazionalizzazione: la qualità necessaria
«La qualità ridà valore all'export»
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L'industria del made in Italy, cioè dei beni di consumo nei settori tradizionali come moda, design, arredamento e alimentare, ha saputo reagire alla crisi degli anni scorsi e alla concorrenza dando enfasi al valore e alla qualità dei prodotti. Tra 2000 e 2006 le esportazioni italiane sono diminuite in quantità ma sono aumentate in valore: la crescita dei prezzi è stata del 25% circa, i volumi prima sono calati poi hanno recuperato più o meno i livelli di partenza. Nel complesso le esportazioni italiane in questi sei anni sono salite del 27,4%: solo Germania (+49%) e Spagna (+38,9%), tra i Paesi industrializzati, hanno fatto meglio. Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone sono rimasti alle nostre spalle. Ma non tutte le imprese ce l'hanno fatta: «sono rimaste quelle che hanno avuto la capacità di affrontare i mercati con prodotti di qualità più elevata: è stato un processo di "distruzione creativa" per cui chi è debole esce dal mercato, chi resta si consolida e rafforza la presenza all'estero».
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E' l'opinione di Beniamino Quintieri, presidente della Fondazione Manlio Masi che, in collaborazione con Luiss Lab, ha realizzato la ricerca "La sfida della qualità. Il futuro delle aziende italiane sui mercati internazionali" promossa dal Comitato Leonardo.
Professore, è rimasto sorpreso dai risultati emersi da questa ricerca? Quello che mi ha stupito è stato verificare la capacità di reazione di molte aziende. Vorrei sottolineare che tra il 2000 e il 2005 le imprese italiane esportatrici sono calate del 3%, poco tutto sommato. Ma nei settori tradizionali del made in Italy questo calo è stato tra il 10 e il 20%, a fronte di valori di export sostanzialmente uguali.
Lo spostamento su produzioni di maggior qualità è dunque la chiave vincente per le aziende del made in Italy? I due fattori sono la qualità migliore e il maggior potere di mercato. Le faccio un esempio: negli Stati Uniti la qualità relativa dell'import italiano è aumentata molto più di quella del resto del mondo. Fatto uguale a 100 l'indice del 2000, sul mercato Usa il valore medio unitario del resto del mondo è sceso a poco più di 90, quello del made in Italy è salito a 125 circa. La divaricazione dei prezzi è cresciuta molto anche sul mercato europeo nei confronti della Cina. E ancora: in Russia e in Cina i prezzi all'export dell'Italia sono aumentati tra il 2000 e il 2006 del 44,5% circa, contro una media sul mercato mondiale del 25%.
Dove si registrano le differenze maggiori tra export in volume e in valore? Negli ultimi sei anni l'industria del tessile-abbigliamento ha incrementato il prezzo medio delle esportazioni di un terzo mentre i volumi sono scesi in misura consistente. Per il settore del cuoio e calzature la differenza è ancora più eclatante con un aumento dei prezzi del 41% i prezzi, e una riduzione delle quantità pari al 27%.
Pensa che l'obbligo di etichetta d'origine, il cosiddetto "made in" che sembra così difficile far accettare a Bruxelles, possa essere un valido aiuto per le imprese italiane? In realtà credo che sia abbastanza antistorico: ormai una certa importazione di semilavorati è inevitabile. Dipende a che livello si mette l'asticella: se diventa indispensabile che il prodotto sia fatto interamente in Italia penso che ci daremmo la zappa sui piedi. Oltretutto, con tutte le contraffazioni che abbiamo, non si sa neppure più cosa voglia dire made in Italy.
Lei è stato anche presidente dell'Ice: sulla base della sua esperienza che consigli darebbe alle aziende italiane per crescere sui mercati internazionali nel nuovo contesto? Le piccole aziende devono cercare di consorziarsi, anche per creare dei marchi che possano imporsi all'estero. Oppure trovare forme di collaborazione: per esempio, imprese che producono diverse tipologie di prodotto possono unirsi per arrivare insieme alla grande distribuzione, dando ai clienti la possibilità di acquistare merci a piccoli lotti ma assortite. Oggi il mercato lo fanno loro: senza la capacità di entrare nella distribuzione non si va da nessuna parte. Non si può più fare il giro dei mercati una volta all'anno con la valigetta, come si faceva un tempo, ci vogliono azioni più incisive e reiterate.
tratto da www.ilsole24ore.com
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In collaborazione con Spazio Impresa - www.spazioimpresa.biz/Pub/default.asp?IDappartenenza=5099
03/09/2007