BARI - L’economia al Sud non va. La notizia ci viene condita in tutte le salse, ma la portata principale è sempre la stessa.
Carenza di infrastrutture, lamentano gli imprenditori, puntando il dito contro uno Stato assente. Sistema di avvio al lavoro poco qualificato, perché le aziende cercano personale già formato che il sistema scolastico non riesce a fornire, il tutto unito a risorse economiche insufficienti, o che a volte non si sanno spendere, come nel caso dei fondi europei.
Ma se non fossero solo queste le cause? Se invece fosse sbagliato il modello manageriale italiano, sia politico, sia economico, che deve gestire questo sviluppo?
Le ultime cronache hanno riportato due casi esemplari. In una struttura imprenditoriale di respiro internazionale si cerca un manager della felicità, cioè che sappia mantenere un buon clima aziendale, per tenere alto il grado di produttività, al Sud invece una grande catena distributiva che prima aveva ingaggiato un manager per curare il salto di gestione sul territorio nazionale, ha poi ripiegato sulla più limitata competenza di un proprio ragioniere, «perché si era sempre occupato di tutto». In pratica si è preferito un vecchio modello di sviluppo più clientelare, familistico, come dire, casereccio, ad un modello più moderno di tipo meritocratico.
E se fosse questo il male oscuro che ancora penalizza il nostro sviluppo?
Gestire e governare la futura evoluzione nazionale significa avviare nuove regole d’impresa, che non possono basarsi ancora sull’assistenzialismo. Il rischio che si corre è la marginalizzazione e il colonialismo.
L’Italia e il Sud in particolare devono cogliere l’opportunità offerta dai sistemi di innovazione e globalizzazione, traducendola in un metodo che la porti a reggere la competitività a livello mondiale, ma per riuscirci le sue componenti, politica ed economica, ed in primo luogo le imprese, devono riuscire a lavorare per l’obiettivo comune. Uno sforzo in team che possa portare allo sviluppo di tutto il Paese.
Un’indicazione di questi tipo viene anche dall’ultima ricerca curata da Eurispes e dedicata alla classe manageriale italiana.
Il problema principale riscontrato è, infatti, la sofferenza tutta italiana per la mancanza di una vera classe dirigente, di un’élite culturale, economica e politica che sapesse tracciare scenari sviluppo e che li sapesse anche realizzare. Invece diverse ragioni di carattere storico hanno portato i sistemi economici e politici italiani a rimanere con lo sguardo corto, a vivere solo ed unicamente il presente, cristallizzando e mitizzando il passato e lanciandosi in progetti futuristici talmente titanici da essere impossibili da gestire.
Di conseguenza i gruppi politici ed economici, invece di crescere insieme, lavorando seriamente a progetti comuni, hanno operato solo al fine di consolidare le loro posizioni di potere e di ricchezza.
È chiaro che a queste condizioni reggere un modello di innovazione, fondato invece su un sistema meritocratico, e che possa portare allo sviluppo è impossibile.
Se la realtà politica italiana fatica ancora a trovare un equilibrio dopo il ciclone delle vicende giudiziarie di “Mani pulite”, tocca all’élite imprenditoriale farsi carico della responsabilità di traghettare finalmente l’Italia nel Terzo millennio, accettando la scommessa della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica.
In pratica come sottolineato nella ricerca: «una vera classe politica dirigente è quella che prende in mano le redini del paese e non conferisce deleghe al potere politico, per potersi poi dichiarare non responsabile della gestione diretta del potere stesso». Niente gioco da scarica barile, niente pianti greci se l’economia va giù, invocando aiuti e sovvenzioni statali, perché una vera classe dirigente «è quella che accetta di beneficiare di qualche protezione in meno e corre qualche rischio in più, pretendendo che lo Stato assicuri i servizi essenziali solo per moltiplicare le opportunità di sviluppo».
Perché si compia questo passaggio c’è però bisogno di manager competenti, responsabili e che operino secondo un sistema cooperativo, e non come tanti solisti. Cosa succederebbe ad una squadra di calcio con 11 giocatori (per non parlare delle riserve in panchina) che si sentono tutti superstar? Che possono essere battuti da una piccola squadra che invece gioca con entusiasmo, cresciuta insieme sotto una guida che li sa motivare e dirigere. Come il Chievo.
Per l’Italia non è più tempo di rimandare, il rischio di rimanere tagliati fuori dai sistemi di sviluppo è troppo alto.
Alla classe dirigente è chiesto di rinnovarsi e crescere, uscendo fuori dai modelli a cordata, da cenacoli di tipo lobbystico dove il potere è spartito sempre tra le solite famiglie. La crescita vertiginosa della new economy con professionisti nuovi, che possono contare solo sulle proprie forze ed abilità e che riescono a sostenere la crescita al di fuori dei vecchi sistemi feudali, dimostrano abbondantemente in che direzione va il cambiamento.
Il nuovo manager deve essere in grado di conoscere la realtà, di leggere i sistemi di trasformazione sociale e di interpretare le istanze che vengono dal basso, deve essere capace di programmare a lunga scadenza, di investire e costruire un nuovo sistema in grado di creare sviluppo. Infine deve saper riprodurre questo modello, trasferendo le necessarie competenze ai collaboratori, responsabilizzando quanti lavorano attorno a lui, senza paura per questo di perdere il potere della sua carica.
Innovazione non significa solo dotarsi dei più moderni macchinari o lanciare sul mercato prodotti sempre nuovi e geniali, innovazione significa soprattutto nuovo sistema di gestione, con connotazioni finalmente ispirate dalla cultura d’impresa, dalla cultura di buona impresa.
Questo articolo è stato già pubblicato sul sito www.gdmland.it
Rita Schena