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Il ruolo della Islamic Law

a cura di: avv. Danilo Desiderio

 

Tradizionalmente usiamo classificare i sistemi giuridici mondiali in due famiglie fondamentali: la civil law e la common law. Ma in realtà esiste anche un terzo sistema giuridico, che potremmo definire di “Islamic Law”, che va tenuto in considerazione, non solo per l’ampiezza dei Paesi che lo applica, ma anche perché sta divenendo argomento di un rinnovato interesse da parte degli studiosi, sia a seguito dei noti eventi terroristici dell’11 settembre 2001, che hanno acceso i riflettori su un mondo che per lungo si è voluto ignorare, sia per i fenomeni di “reislamizzazione” che hanno caratterizzato e stanno caratterizzando alcuni Paesi di cultura islamica, i quali dopo aver adottato delle codificazioni di tipo occidentale, evidentemente ad un certo punto non le hanno più sentite come a loro congeniali, e sono ritornate al diritto islamico, reintroducendolo nei rispettivi ordinamenti.

 

Il diritto musulmano, da oggetto di mera curiosità sta divenendo sempre più oggetto di studio comparatistico anche da parte delle imprese, allo scopo di adattare la loro offerta anche ad una clientela musulmana che, alimentata delle continue ondate migratorie provenienti dai Paesi islamici, è divenuta sempre più consistente in occidente. Ciò accade ad esempio nel comparto bancario, dove la maggior parte ormai delle grandi istituzioni finanziarie occidentali ha aperto degli «sportelli islamici» o creato prodotti finanziari destinati a una clientela musulmana. Il fenomeno è sorto in seguito alla comparsa delle cd. “banche islamiche”, ossia istituti finanziari che propongono tipologie alternative di investimento e credito, fondate sulla condivisione dei rischi e dei benefici con i depositanti, attraverso lo schema tipico del profit/loss sharing. Il Corano infatti vieta l'usura e gli interessi, come un tempo faceva da noi la Chiesa. Più precisamente, è vietato ogni ingiustificato arricchimento (ribà), ovvero ogni vantaggio patrimoniale conseguito senza che l’altro contraente riceva un corrispettivo. Il fine è di evitare che il contraente più forte possa sfruttare la sua posizione di maggior forza contrattuale esclusivamente a proprio vantaggio, in danno del contraente più debole.

Non stupisce, dunque, che il Corano contenga una riprovazione di carattere generale del prestito ad interesse, ovvero dell’usura, che viene espressa in chiara contrapposizione alla pratica dell’elemosina (zakat), attività che invece rientra tra i cosiddetti “pilastri” dell’islam. Ma poiché anche nelle società islamiche lo sviluppo dei traffici commerciali ha inevitabilmente costretto gli operatori economici a richiedere delle somme di denaro in prestito per lo svolgimento delle loro attività, le banche, stante il divieto di applicazione a tali somme di un interesse, hanno finito con l’elaborare col tempo una serie di artifici giuridici (hiyal) volti a realizzare indirettamente questo fine.

 

Ritornando ai paesi di Civil law, la caratteristica fondamentale di tali sistemi è costituita dal fatto che il giudice si basa, nel prendere la sua decisione, solamente sulle norme del diritto. Nell’interpretazione della norma da applicare alla fattispecie concreta, egli è quindi libero di non adeguarsi all’opinione espressa da altri giudici, potendo anche discostarsi dalla loro interpretazione. In realtà, è noto che anche in tali ordinamenti i precedenti giudiziari, e specialmente le pronunce delle giurisdizioni superiori, hanno un certo grado di vincolatività. Ciò vale anche nel nostro ordinamento, dove viene ammessa la possibilità, per il giudice di merito, di adempiere all’obbligo di motivazione della propria sentenza, attraverso il mero richiamo della giurisprudenza della Corte di Cassazione, in relazione alla soluzione di una questione univocamente espressa dalla stessa (Cass., sent. n. 3275/1983). Viceversa, il giudice di merito che intenda discostarsi dai precedenti della Cassazione, ha l’obbligo di motivare accuratamente tale scelta e di addurre ragioni complete, congrue e convincenti per contestare l’interpretazione disattesa (Cass., sent. n. 7248/1983).

 

Gli ordinamenti di common law invece, come ad esempio quello inglese, irlandese, statunitense o australiano, non sono basati, a differenza di quelli di civil law, su un sistema di norme raccolte in codici, bensì sul principio giurisprudenziale dello “stare decisis”, vale a dire sulla vincolatività del precedente giudiziario”. Il giudice che si trova di fronte ad una determinata questione giuridica, cercherà cioè di rifarsi ad una decisione anteriore regolante un caso simile, nella quale ricercherà la soluzione per il caso sottoposto al suo esame. Ad egli spetterà dunque di decidere se attribuire a tale decisione il valore di precedente vincolante nei confronti del caso successivo: di fatto ciò avverrà quando i «fatti essenziali» (material facts) delle due controversie sono praticamente gli stessi. Nella common law inoltre, la “vincolatività di un precedente è strettamente collegata all’autorità dell’organo giudicante che lo emette, ossia dalla posizione occupata da tale organo nella rigida gerarchia in cui è organizzata la magistratura dei paesi anglosassoni. La vincolatività del precedente aumenta dunque man mano che dalle Inferior Courts ci si avvicina alle Superior Courts.

 

Veniamo dunque al terzo sistema giuridico che intendiamo prendere in esame: il sistema della Islamic law. Prima di analizzarlo è necessario fare una premessa: nella nostra cultura siamo abituati a considerare che le scelte di uno Stato siano indipendenti dalle scelte degli ordinamenti confessionali. Si ricordi il noto detto evangelico: "rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio", che sintetizza bene questa separazione esistente nel mondo occidentale tra la sfera politica e quella religiosa, che invece non esiste, almeno così nettamente come noi, nelle società islamiche. In occidente infatti ci portiamo dietro un’eredità, giunta a noi dall’epoca dell’illuminismo, che ci ha abituato a porre l’individuo al centro di tutto, anche del sistema giuridico: ciò vale sia nei sistemi di common law che in quelli di civil law, dove la norma giuridica è intesa come prodotto della ragione, e in quanto tale assume forza vincolante. Nel mondo musulmano la fonte del diritto è Dio, legislatore per eccellenza che ha rivelato la sua volontà agli uomini tramite  la rivelazione fatta al Profeta: la norma giuridica riceve dunque la propria legittimazione dal fatto che è emanazione diretta di Dio. Il Corano, fonte primaria del diritto islamico è il testo rivelato da Dio a Maometto attraverso l’Arcangelo Gabriele: per questo motivo per un musulmano non è possibile mettere in discussione le prescrizioni contenute in esso, perché significherebbe mettere in dubbio la parola di Dio. Nell’Islam, la distinzione tra potere temporale e potere spirituale è quindi molto più sfumata che da noi: questo va tenuto presente quando parliamo di “diritto islamico”, perché le norme che lo compongono sono in realtà molto di più di semplici precetti giuridici. Di conseguenza, l’unico modo di comprendere queste norme è quello di calarle nel contesto storico-culturale nel quale sono applicate. Sotto questo aspetto, l’Islam si presenta infatti come un ordinamento con delle caratteristiche uniche: innanzitutto il semplice fatto di essere un diritto confessionale lo rende strumento che non mira a raggiungere (come da noi), solo fini di pacifica convivenza sociale, ma anche e soprattutto fini di natura ultraterrena.

Nell’l’Islam, il diritto musulmano è storicamente molto più di un semplice sistema di norme regolanti le condotte degli individui, è un sistema totalizzante che regola ogni aspetto della vita del musulmano: dall’economia al diritto, alla vita sociale e familiare. Alla base della dottrina dell’Islam figura infatti la sottomissione integrale dell’uomo alla volontà di Dio, di cui ogni fedele è strumento attraverso cui viene attuata la volontà. Da questo concetto teocratico, che si pone in antitesi con la concezione tipicamente cristiana del libero arbitrio, discende come conseguenza che l’agire individuale e sociale deve essere diretta espressione della volontà di Allah, come è manifestata dalle fonti.

Pur presentando sorprendenti analogie con il diritto romano, specie nel campo dei diritti reali e del possesso, il diritto musulmano non è strutturato intorno ad un corpo di leggi: sotto questo aspetto si avvicina dunque più ai sistemi di common law, con la fondamentale differenza che anziché essere diritto di produzione giurisprudenziale (come la common law), esso è diritto di produzione dottrinale. Sono infatti i dottori della legge (fuqahà) ad integrare le fonti scritte del diritto islamico (Corano e Sunna) con le loro opinioni (fatwa), che tuttavia non sono giuridicamente vincolanti per i fedeli fino a quando su di esse non si crea il “consenso” (ijma) della comunità (si ritiene, di un numero sufficientemente ampio di dottori). Le fonti (letteralmente “usul”, ossia “radici”) della legge islamica sono dunque 4: al Corano, la prima e la più importante, si aggiungono infatti altre 3 fonti: una, detta “Sunna”, ha come il Corano, natura scritta, mentre 2 (ijma e qiyas), sono di natura orale. La legge islamica viene detta sharî‘a, che letteralmente significa “la via”, perchè dovrebbe portare, attraverso la sua osservanza, ogni uomo alla salvezza. La sharî‘a si trae proprio dalle quattro radici sopra descritte.

Contenendo il Corano infatti solo una minima parte di prescrizioni di tipo strettamente giuridico (si calcola meno del 10%), fu sin da subito avvertita l’esigenza di integrare le sue prescrizioni con altre, quali la Sunna (letteralmente “costume”), raccolta di detti, comportamenti, di azioni, di assensi e persino silenzi attribuiti al profeta (la cui vita viene considerata ispirata dalla divinità) ed ai suoi primi compagni. Ogni fedele, nella vita esemplare del Profeta, trova infatti nella Sunna un modello cui conformare le proprie azioni. Gli atti che compongono la Sunna sono detti “ahadith” (“resoconti”). Nell’Islam tutto va letto alla luce di queste due fonti principali, e solo quando queste non offrono una risposta precisa per la definizione di una data questione, si può ricorre al ragionamento indipendente, all’interpretazione (ijtihad, letteralmente “applicarsi”), che condurrà il fuqahà ad emettere un’opinione giuridica. A Corano e Sunna si aggiungono l’Ijma ed infine la fonte più controversa: l’analogia (qiyas), meccanismo tramite il quale un principio contemplato dal Corano o dalla Sunna può essere esteso ad un caso analogo. Tra i comandi contenuti nella sharî‘a, si distinguono i precetti che riguardano il rapporto tra uomo e Dio (ibadat), e quelli che riguardano le relazioni con gli altri musulmani ed esseri umani in genere (mu’amalat). Le ibadat sono rappresentate essenzialmente dai cinque Pilastri (arkân al-dîn), cioè i cinque fondamentali atti di culto della religione musulmana, disciplinati direttamente dal Corano.

Oggi la maggior parte degli stati islamici si basa, oltre che sulla sharî‘a, su una serie di codici di impronta occidentale, per lo più introdotti a seguito delle colonizzazioni. La promulgazione del Codice di commercio ottomano nel 1850, viene considerato dagli storici il momento di avvio del processo di codificazione del diritto negli Stati arabi contemporanei. Tale codice, che dopo quello egiziano è stato quello che ha avuto la maggiore diffusione nel mondo arabo, si ispira a modelli normativi francesi sui quali si innesta la disciplina musulmana della scuola hanafita in materia di obbligazioni e contratti. Più recente è invece il modello maghrebino. Ogni paese ha quindi risposto con un diverso grado di effettiva applicazione e di approccio interpretativo diverso del diritto musulmano classico. Accade così di constatare delle notevoli differenze fra i vari Stati e livelli diversi di applicazione della legge religiosa: ciascuno di essi, pur avendo introdotto nel proprio ordinamento norme che si richiamano direttamente alla shar’ia, di fatto applica la legge islamica adattandola alle proprie esigenze. Ciò è principalmente dovuto ad un processo, iniziato fin dall’800, che i sociologi hanno definito di “acculturazione” del diritto islamico, ossia di contaminazione di tale diritto a causa della recezione di modelli normativi stranieri, soprattutto di civil law. In alcuni casi, tale processo ha determinato una profonda modifica del diritto islamico classico, causando l’emersione di un diritto autoritativo di produzione statuale (qânûn), sviluppatosi in netta contrapposizione con la sharî‘a. Nel mondo islamico, questo rapporto tra sharî‘a e qânûn, ossia tra diritto di derivazione divina e diritto di produzione statale, è storicamente conflittuale.

Il “nocciolo duro” del diritto islamico, in quanto ne costituisce la parte più intima ed irrinunciabile, perchè maggiormente legata alla tradizione, rimane il diritto di famiglia. Nemmeno questo settore, però, risulta essere del tutto immune alle influenze straniere, come dimostra l’esperienza tunisina, dove il Codice dello Statuto personale ha profondamente innovato la materia, conferendo alla donna una serie di diritti che nessun altro stato islamico riconosce.

Il sistema giuridico dell’Islam che si basa sugli “usul al fiqh”, coesiste oggi con codici civili che sono stati man mano adottati nei vari Paesi, molto spesso frutto del colonialismo: è il caso ad esempio della Tunisia, dove c’è un codice civile mutuato da quello francese, della Libia, dove i toni rigidi della sharia sono stemperati dalla dottrina professata da Gheddafi nel suo Libro Verde, il manuale che illustra la Terza Teoria Universale, alternativa al capitalismo e al comunismo, da cui discendono i principi fondamentali dello Stato libico.

 

Per quanto riguarda il potere politico, nell’Islam esso non spetta a nessuno di diritto. Può esercitarlo legittimamente solo chi se ne dimostri in grado, chi non lo usurpi o conquisti con mezzi illegittimi, e soprattutto chi lo utilizzi per attuare la volontà divina, applicando la legge data da Dio. La tradizione sunnita, maggioritaria da sempre, si distingue da quella sciita proprio per il netto rifiuto di ogni ereditarietà del potere. Nella tradizione sciita esiste invece una gerarchia molto forte che in un certo senso avvicina i loro dignitari religiosi al nostro clero cattolico: si veda l'esempio dell'Iran dove tali dignitari formano una sorta di istituzione religiosa molto gerarchizzata con titoli come ayatollah o mullah. Altro punto di divergenza fra la tradizione sunnita e quella sciita riguarda l’imamato: l’imam è, in una accezione molto ampia, colui che sta davanti all'assemblea, alla comunità. E' un uomo che ha seguito, in genere, degli studi ufficiali (oggi esistono nei vari Paesi arabi, degli Istituti che rilasciano diplomi ed ufficializzano il ruolo di imam; tali Istituti sono spesso incoraggiati dagli governi, che cercano in questo modo di controllare chi parla nelle moschee), ha una buona conoscenza dell'islam, del Corano e dei diversi campi delle scienze islamiche, con una buona padronanza linguistica. Ebbene, per gli sciiti l’imam rappresenta una vera e propria mediazione tra Dio e gli uomini, concezione questa che invece viene rifiutata dai sunniti. A ciò va aggiunto che mentre la scelta degli imam, per i sunniti, deve avvenire dal basso, per gli sciiti, che difendono la successione di sangue, deve avvenire dall'alto, e questo innesca un sistema vicino a quello della gerarchia ecclesiastica.

 

 

 

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