Osservatorio Asia: tutti uguali nella crisi ? A cura di Romeo Orlandi
Può considerarsi in crisi un paese la cui economia è cresciuta nel 2008 del 9,1%? La domanda, in situazioni consuete, farebbe sorridere. Mentre le economie industrializzate lottano per non cadere in recessione, per avere un segno positivo, anche minimo, di fronte alla variazione del Pil, la Cina si conferma la grande isola felice della globalizzazione.
Tuttavia, una visione anche leggermente più analitica rileva pesanti sintomi di arretramento e diffuse inquietudini per il futuro. Il Pil della Cina era aumentato dell’11,7 nel 2008 e del 10,7% nell’anno precedente. La ricchezza del paese, che economicamente viene fatta coincidere con il valore del Pil, ha conosciuto nel trentennio di riforme ed apertura uno spettacolare incremento. Dal 1978 il tasso medio di crescita annuale è stato del 9,9%. Nessun paese al mondo, nella storia moderna, è cresciuto in maniera così massiccia e continuativa. Alla morte di Mao Ze Dong, il paese ha accantonato una politica di rigoroso stampo ideologico che aveva trovato nella Rivoluzione Culturale la sua stagione di maggior fanatismo. Con una spettacolare virata teorica, la dirigenza cinese ha indicato e percorso una via di sviluppo che si è snodata su due binari: la protezione dell’iniziativa privata e l’apertura all’estero.
La prima è stata dirompente per l’aspetto politico. Dopo decenni di economia pianificata, un paese guidato da un Partito Comunista, ha tentato la strada dello sviluppo delle forze produttive, incarnando le necessità di una crescita stabile, ma rinunciando al suo completo controllo. La fine dell’autarchia ha segnato invece la fine di un periodo secolare di isolamento. La chiusura maoista è stata l’ultimo anello del sinocentrismo. Pur se il cambio di direzione politica all’interno del Pcc è più conosciuto per la sua novità nel dibattito, in realtà l’inserimento della Cina nello scacchiere internazionale è un avvenimento inedito, innovativo e fertile nella sua storia contemporanea.
Dal 1978 un approccio pragmatico ha prevalso progressivamente su una visone utopica di ugualitarismo. Ha riconosciuto che l’economia aveva bisogno di spinte per trainare il paese e che lo sviluppo sarebbe stato causato dalle disuguaglianze. Ha preso inoltre coscienza che l’economia ha bisogno di regole e di strumenti per poter dispiegare i suoi effetti. La “scienza borghese” ha avuto il compito di riscattare la Cina, fino a farla diventare un Dragone. L’apertura all’estero è stata strumentale a questa rivoluzione pacifica. Il paese ha riconosciuto, per la prima volta nella sua storia, la superiorità esterna, pur se confinata all’aspetto tecnico e produttivo. Le macchine straniere hanno industrializzato la Cina, innestando un circolo virtuoso di crescita economica e rafforzamento politico. La scorciatoia contro il sottosviluppo ha avuto il marchio dell’apertura, della collaborazione con potenze precedentemente ostili. Si è trattato di un’operazione largamente di successo. La classe dirigente è rimasta al potere e le condizioni di vita della popolazione, pur tra inequivocabili contraddizioni, sono migliorate in maniera plateale.
I primati economici sono largamente conosciuti. Ad essi si aggiungono i successi politici che hanno costellato l’ultimo ventennio: dal ritorno di Hong Kong e Macao alla Repubblica Popolare all’ingresso nel Wto, dal trionfo sportivo delle Olimpiadi a Pechino all’assegnazione a Shanghai dell’Esposizione Mondiale del 2010. A fronte di questi riconoscimenti della comunità internazionale, la Cina ha offerto meno di quanto le veniva richiesto, in modo particolare sulla riforma del sistema politico e sull’allentamento della sua rigidità sui diritti umani. A conclusione di 30 anni di esperimenti, il laboratorio Cina presenta dunque un conto largamente in attivo: un paese più prospero, apparentemente solido, gravato da contraddizioni ma non lacerato. La sua forza nella scena mondiale è acclarata, fino ad indurre rispetto ed anche timore. Il suo peso è ora ingombrante e necessario.
Il prezzo pagato per questa spettacolare affermazione è la dipendenza dall’estero. Paradossalmente, più la Cina cresce, più diventa costretta a negoziare. Il suo successo è fortemente dovuto infatti alla componente estera della sua domanda globale. L’abilità dei suoi dirigenti è consistita nel trarre vantaggio dalla globalizzazione senza smarrire i tratti originali della cultura, nell’avere intercettato le necessità dell’ordine economico senza arrendersi ai suoi principi politici e sociali. Il paese è cresciuto perché ha tenuto saldo il timone, offrendo ai partner industrializzati l’immediatezza di una base produttiva efficiente ed il miraggio di uno sterminato mercato interno. La costante ricerca di nuovi traguardi economici ha oscurato la necessità di una riforma del sistema, che potesse preludere al multipartitismo e ad una maggiore partecipazione dei governati alla vita pubblica.
Un sistema che pareva autoalimentarsi ha trovato nella crisi ostacoli pesanti. Il calo della domanda internazionale è il fattore più devastante per la Cina, perché l’intero circuito di creazione di ricchezza arranca pericolosamente. Il Dragone è il secondo esportatore mondiale, ma circa i â…” delle merci che escono dal paese derivano da investimenti di aziende straniere. Sono quasi 150.000 le multinazionali che hanno delocalizzato in Cina, attratte da una miscela imbattibile di bassi costi dei fattori di produzione, disponibilità di materie prime, stabilità politica. Le merci che provengono dalla “fabbrica del mondo” vengono caricate sui porti cinesi, i più trafficati al mondo, e spedite ovunque. Quando la domanda globale flette la Cina soffre.
La crisi inevitabilmente si è spostata dal settore finanziario all’economia reale. Di conseguenza cala la domanda di prodotti finiti, di semilavorati, di componenti. Le fabbriche cessano le operazioni in Cina perché nel mondo industrializzato la richiesta di prodotti arretra. Se un battito d’ali di una farfalla in Amazzonia provoca un tornado in Texas, un Natale austero negli Stati Uniti determina la chiusura delle fabbriche nelle città cinesi. Le esportazioni si sono ridotte del 25% nei primi due mesi del 2009. Secondo le prudenti stime del Governo, 20 milioni di operai cinesi sono stati licenziati od hanno perso il lavoro perché la loro impresa ha cessato le operazioni. Soltanto nel Guangdong, due dei tre milioni di lavoratori nelle fabbriche di giocattoli sono ora disoccupati. Si tratta di ex contadini trasferitisi nelle fabbriche sulla costa orientale per ricavare un reddito migliore. Ora sono costretti a vivere di espedienti e pongono seri problemi di protesta sociale alle autorità.
Il riverbero della crisi in Cina è più pericoloso di quello delle altre economie asiatiche per le sue dimensioni. Tuttavia, ogni paese, sia i giganti del nord-est asiatico che i paesi dell’Asean, mostrano cedimenti preoccupanti. Esiste una corrispondenza diretta tra il grado di apertura dell’economia e l’impatto della crisi. I paesi con maggiore vocazione internazionale sono infatti quelli più colpiti. In realtà sta mostrando la sua fragilità un modello basato sul traino delle esportazioni, una export led growth. Dopo la crisi del 1997 l’Asia Orientale ha proficuamente trovato un percorso alternativo che l’ha resa meno dipendente dalla congiuntura mondiale. Oltre un decennio fa il ritiro dei capitali internazionali aveva causato una flessione forte delle attività produttive. La risposta asiatica, ed in particolare quella della Cina, è stata di incrementare il volume degli investimenti interni, trasformando il paese in una titanica macchina da merci.. La manovra è stata possibile non soltanto dall’attrazione dei capitali stranieri volti alla delocalizzazione, ma anche da un considerevole risparmio interno. I consumi cinesi, anche se in relazione ad un reddito pro-capite ancora medio-basso, sono molto ridotti. L’elevato tasso di risparmio ha motivazioni sia storiche che correnti. Affonda le sue radici nella mentalità contadina e confuciana, per le quali la frugalità è una virtù, l’ostentazione un errore, la prudenza una garanzia per i figli. Nella Cina attuale inoltre risparmiare significa essere cautelati di fronte allo smantellamento del welfare state che aveva diffuso uno stile di vita modesto ma garantito, la “ciotola di ferro piena di riso”. Su scala planetaria, il meccanismo creato era all’apparenza una win-win situation. La Cina cresceva basandosi su investimenti, risparmi ed esportazioni. Il mondo industrializzato, in primis gli Stati Uniti, perpetuava l’alto volume dei consumi attraverso l’acquisto di prodotti cinesi. Il risparmio dei contadini nel Regno di Mezzo finanziava gli acquisti della middle class statunitense.
Questa anomalia politica e sociale si rifletteva sui twin deficit di Washington. Il passivo commerciale con la Cina era e rimane impressionante. Contemporaneamente Pechino, forte delle sue immensi riserve, acquistava treasury bonds, finanziando il deficit federale ed impossessandosi dunque di porzioni degli Stati Uniti.
Ora questo circuito è saltato perché la domanda di prodotti cinesi è in calo. Pechino con disinvolta schiettezza ha accusato gli Stati Uniti di essere l’epicentro della crisi. Se essa è nata a Wall Street, e non a Tian An Men, è pressante l’invito agli Stati Uniti a rimettere ordine nella loro economia e soprattutto nel sistema di controlli e di gestione. Per ironia del destino, la Cina si è trovata a dare lezioni di economia politica agli Usa, forte della sua crescita e della sua stabilità. Un paese retto da un partito comunista sale in cattedra e dispensa bacchettate per l’incompetenza di chi voleva proteggere il capitalismo. La crisi assume dunque i contorni di un fatto epocale e non soltanto contabile. Alcuni cardini ideologici che sembravano immutabili – l’ottimismo della finanza, la creazione di ricchezza virtuale, l’inarrestabilità dei consumi – vengono riconsiderati. In particolare la tentazione di far coincidere il progresso di un paese con l’incessante disponibilità di beni materiali ha trovato un limite sia nella capacità di spesa che nei vincoli energetici ed ambientali. La Cina di questa macchina portentosa di produzione è stata causa, effetto e beneficiaria. Anche se non ha responsabilità dirette nell’origine della crisi, non c’è dubbio che ne stia pagando le conseguenze. È questo il motivo delle preoccupazioni del Governo cinese, timoroso delle pesanti ripercussioni. Ha infatti presente la drammatica consapevolezza che nella globalizzazione non esistono isole e non proteggono le Muraglie.
La ricetta di Pechino apparentemente sembrava subito disponibile: dare respiro al mercato interno, accelerare l’approccio ai consumi di centinaia di milioni di persone che finora ne erano state escluse. Si sarebbe trattato dunque di sostituire al vecchio modello un nuovo approccio, una domestic led growth. Il paese è in realtà in condizioni di farlo. I suoi conti sono in ordine e non esiste un preoccupante deficit di bilancio.
L’inflazione è tornata ad essere sotto controllo, anche per la riduzione dei prezzi internazionali delle materie prime. Infine e soprattutto la Cina detiene i forzieri più pingui al mondo. La sua dotazione di riserve ha raggiunto l’astronomica cifra di 2.000 miliardi di dollari. L’ammontare deriva da anni di attivi commerciali e di attrazione degli investimenti stranieri. Relativamente con scarse conseguenze sui conti interni, il Governo ha varato lo scorso Novembre uno stimulus package di circa 450 miliardi di Euro. Questa cifra impressionante è destinata a sostenere la domanda globale. È una manovra di stampo keynesiano che ha trovato le armi nel classico arsenale dell’intervento statale: investimenti pubblici, riduzione fiscale, incentivi alla spesa. Il tentativo è di sostituire la flessione delle esportazioni con un aumento di investimenti e consumi. L’obiettivo strategico è raggiungere una crescita del Pil nel 2009 dell’8%. È questa la soglia comunemente riconosciuta per continuare a mantenere in vita il meccanismo economico che il paese ha costruito negli ultimi trenta anni.
Senza il dinamismo della domanda, le fabbriche non potrebbero assorbire le moltitudini di contadini avviati verso le città, i servizi non darebbero impiego ai tecnici usciti dalle Università, l’intero sistema troverebbe proteste con contestazioni e forse rivolte. La preoccupazione è massima e la necessità e la fiducia di raggiungere l’obiettivo di crescita sono state ribadite a Marzo 2009 dal Primo Ministro Wen Ja Bao nella relazione annuale del Governo di fronte al Parlamento cinese. Pochi giorni dopo, la Banca Mondiale ha invece abbassato di un punto percentuale la previsione di crescita del Pil cinese, fissandola al 6,5%.
La scelta del Governo ha comunque per il momento privilegiato gli investimenti rispetto ai consumi, per due motivi. Il primo è il sostegno alle attività produttive. Per tenere aperte fabbriche e cantieri bisogna erogare credito e avviare un massiccio intervento di lavori pubblici. Le banche di stato sono generose nel concedere prestiti, anche con il pericolo che aumentino i crediti inesigibili. Il ricorso all’indebitamento bancario non ha conosciuto freni nei primi mesi del 2009. Contemporaneamente ingenti fondi sono stati destinati alla costruzione di infrastrutture, soprattutto nelle zone più remote del paese. Il secondo motivo è la consapevolezza che i consumi cinesi non potranno sostituire, almeno nel medio periodo, quelli dei paesi industrializzati. Nonostante gli incentivi, le spese dei cittadini non aumentano, anche se non si riducono. Prevale la prudenza stratificata da secoli di incertezza, di timore delle carestie, di sacrifici per gli eredi. In questa situazione la Cina si trova nell’apparentemente paradossale situazione di dovere aiutare gli Stati Uniti ad uscire dalla crisi per superarla a sua volta. Un tracollo statunitense sarebbe esiziale per l’economia cinese. Potrebbe avviarsi una spirale deflazionistica, con una riduzione di tutta l’attività produttiva. I prezzi si abbasserebbero non per un eccesso di offerta, ma per il crollo della domanda. Se quest’ultima non può essere sostenuta totalmente all’interno, è necessario aiutare gli altri paesi, anche se li si ritengono responsabili della crisi medesima.
La posizione della Cina è dunque forzatamente sincera quando afferma, come tutti, che dalla crisi si esce con uno sforzo comune, senza protezionismi ed evitando svalutazioni competitive che porterebbero alla deprecabile politica del “beggar thy neighbour”, elemosinando dagli altri paesi l’acquisto delle proprie merci. Pechino ha così mostrato l’intenzione di continuare a finanziare il deficit statunitense acquistando dollari e titoli di stato. Il pragmatismo è il motivo ispiratore: domandando dollari se ne mantiene alto il valore, evitando perdite per i propri asset nella valuta americana. Si tengono bassi inoltre il tasso d’interesse e l’inflazione, stabilizzando l’economia di quel paese. La conclusione raggiunta dalla dirigenza cinese è inedita, dopo millenni di nazionalismo: per aiutare la Grande Madre Cina bisogna sostenere altri paesi, anche se pervasi da sentimenti ostili. In un passaggio drammatico della sua storia moderna, la dirigenza ha di fronte la coscienza che un modello inedito di capitalismo controllato, di rigida direzione politica e di estesa libertà economica, non riesce più ad essere immune. Al di là degli aspetti contabili della crisi, il timore è di avere messo in moto un meccanismo che non riesce più a controllare. Un paese intriso di orgoglio per la propria storia ha di fronte una situazione contraddittoria: la diversità ne ha causato prima l’arretratezza e poi il decollo. Oggi l’unicità sembra un’arma spuntata. Pur se più forte, la Cina è più esposta; pur se vanta record invidiabili, non può fermarsi ed è condannata a crescere. Il contagio della malattia è una scoperta nuova e dolorosa, per un paese attraversato per lunghi periodi della sua storia dall’autoreclusione, dall’affermazione di una specificità di cultura prima ancora che di sistema.
La crisi dunque sembra ledere il paradigma dell’inattaccabilità cinese. L’ultima generazione è cresciuta nell’ottimismo dei successi, nella combinazione tra ambizioni personali e forza della sua patria. La crescita appariva fatidica, come se appartenesse all’ordine naturale delle cose, come se l’armonia della natura e della società assicurassero da sole un avvenire migliore. La crisi era sconosciuta ed anche il suo significato culturalmente differente. La parola cinese per illustrarne il concetto è wÄ“i jÄ«; i due ideogrammi indicano “pericolo” e “punto cruciale”, “opportunità”. La crisi dunque è anche un’occasione da cogliere in un momento decisivo, non semplicemente sinonimo di perdita e distruzione di ricchezza. Non è dunque automatico che lo stesso meccanismo che ha trainato il progresso – la globalizzazione – debba ora arrestarne gli effetti. In questa cornice di incertezza, l’Occidente è chiamato a svolgere un ruolo di maggiore apertura verso la Cina. È inopportuno e poco redditizio che il Dragone sia confinato ad un ruolo prevalentemente economico, escluso, almeno formalmente, dai grandi consessi mondiali. L’assenza dai summit del G8, la posizione discreta all’Onu, la presenza non ingombrante sui teatri di crisi internazionale, dovranno essere rivisti e posti in sintonia con il peso e le dimensioni della Cina. Finora questa situazione era accettata tacitamente: il modo industrializzato dettava le regole, la Cina ne traeva vantaggio, forte della sua diversità. Oggi esiste l’occasione di porre rimedio a questa incongruenza, ingaggiando maggiormente la Cina sulle questioni internazionali, anche nonostante la sua riluttanza. Dovrà prevalere lo stesso spirito che ha condotto il Dragone nel Wto: la fiducia che l’immissione di un gigante in un contesto multilaterale ne riconosca l’importanza, lo induca al confronto e lo convinca che le frontiere sono tutte più porose e che il contagio può essere utile per tutti. Nella spietatezza dei numeri diffusi dalla crisi, uno spiraglio di futuro trapela ed indica il percorso. Una Cina isolata, esclusa, utilizzata ed contemporaneamente insensibile alle sollecitazioni esterne non è di alcun giovamento, né a se stessa, né alla comunità internazionale. Riproduzione vietata tranne espresso consenso dell'autore Prof. Romeo Orlandi - romorl@yahoo.it -
17/06/2009
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