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La tecnologia governa il diritto nella P.A. Digitale?

La tecnologia governa il diritto nella P.A. Digitale?

 

A cura di Avv. Andrea Lisi - Coordinatore D&L Department e Presidente di Anorc - Associazione Nazionale per Operatori e Responsabili della Conservazione Digitale


Fareste affidamento su un contratto scritto e sottoscritto con inchiostro simpatico su un foglio di carta velina? E secondo voi è possibile immaginare che ogni cittadino possa scegliere democraticamente di depositare le proprie istanze alle PA recandosi presso lo sportello preposto con terrine ricolme di sabbia in mano dove sono “incise” le sue richieste da depositare negli archivi? Secondo voi è ammissibile che un cittadino possa decidere su che supporto riversare le sue istanze e dichiarazioni? E in un futuro non troppo lontano potremo liberamente decidere di recarci presso uno sportello e, previo riconoscimento della nostra identità, avviare un’istanza proiettando all’attenzione dell’addetto un sofisticato ologramma e “sottoscrivendo” il tutto attraverso un movimento della mano disegnato nell’aria?

Ovvio che tutto questo non è ammissibile e non dovrebbe mai esserlo. Peccato che, quando regolamentiamo la tecnologia digitale, ci dimentichiamo delle necessità degli archivi pubblici, i quali devono preservare e garantire nel tempo istanze, dichiarazioni, documenti in genere, assicurando alla collettività quell’esigenza di “pubblica fede” su tutto ciò che da quegli archivi venga acquisito. Per questo una PA protocolla, fascicola, archivia ed è in grado di “autenticare” i propri documenti: tutte queste necessità archivistiche costituiscono un baluardo per qualsiasi sistema democratico, perché garantiscono i cittadini in merito all’autenticità dei documenti conservati dalle PA.

Oggi il legislatore sembra, invece, subire un continuo innamoramento verso certa tecnologia: e allora si innamora della PEC (Posta Elettronica Certificata), della CEC-PAC (Comunicazione Elettronica Certificata Pubblica Amministrazione Cittadino), del PDF/A, del supporto ottico, del timbro digitale, della firma biometrica su palmare e così via, dimenticandosi che la Società dell’Informazione non può essere gestita e regolamentata solo e soltanto attraverso uno strumento informatico e credendo fideisticamente negli automatismi di un processo digitale; alla base di ogni logica legata a un bit ci deve, viceversa, essere un disegno che sia condiviso dalle esigenze del diritto. Mai come nella digitalizzazione amministrativa si deve necessariamente trovare una ideale, difficile convergenza tra studiosi del diritto, informatici e archivisti. Solo attraverso un’integrazione costante e complice di competenze diverse ha senso cambiare l’attuale assetto normativo, innaffiando idealmente l’attuale testo di modifica del CAD (D. Lgs. 82/2005), in fase di definitiva approvazione in Parlamento, di quegli strumenti concreti e giuridicamente corretti con i quali si possano affrontare con successo le reali esigenze contrapposte che sono presenti negli enti pubblici.

Allora se nel commercio elettronico tra privati ha un senso garantire la valenza giuridica anche di una semplice e-mail perché in questo contesto è l’aformalismo contrattuale a farla da padrona, nel rapporto tra cittadino e PA devono essere la certezza del diritto e l’equilibrio delicato tra forma e sostanza, seppur digitali, a dover essere preservati.

Oggi, sull’onda dell’entusiasmo acritico verso lo strumento della PEC e della Posta Certificat@ (che altro non è che la CEC-PAC, cioè uno strumento di comunicazione gratuito che funziona solo da cittadino a PA e viceversa – info: www.postacertificata.gov.it/), si continua a confondere maldestramente il documento trasmesso (da sottoscrivere con firma digitale) con lo strumento di trasmissione certificata. Tale confusione sembrerebbe riversarsi anche sulla proposta di modifica del Codice dell’amministrazione digitale dove si obbligherebbero tutte le PA a ricevere PEC (o CEC PAC) quali istanze valide, cancellando anche il potere (proprio delle singole amministrazioni) di autoregolamentare tali processi, pretendendo la firma digitale quando indispensabile per garantire la validità e la autenticità delle istanze e dichiarazioni inoltrate dai cittadini. Il rischio è per la PA di rendere di fatto impossibile assicurare e attestare l’autenticità di un archivio pubblico. Infatti, se la PEC è “sottoscrizione” elettronica, (ai sensi dell’art. 21 del CAD), come si legge, ad esempio, nel DPCM 6 maggio 2009, allora chi lo spiega al responsabile del procedimento come garantire la corretta fascicolazione e archiviazione di un allegato .doc (con macro attive e non sottoscritto con firma digitale) ricevuto via PEC? O come si farà a protocollare e archiviare correttamente un allegato video in cui il cittadino via PEC “formalizza” solennemente una dichiarazione sostitutiva?

Vogliamo davvero la scrittura su sabbia per il futuro della nostra PA digitale?

I problemi della PA digitale sono tanti e complessi e non si risolvono certo donando la PEC a tutti i cittadini italiani, i quali hanno anche gradito poco questo pacco regalo, considerando che ad oggi  sono state richieste solo 415.000 CEC PAC (e non ci è dato sapere quante effettivamente rilasciate e attivate).

Fonte: Corriere delle Comunicazioni

 

05/11/2010

 

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